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L’Aldilà esiste? Esperienze di pre-morte

L’Aldilà esiste? Esperienze di pre-morte

Uscirà a giorni il volume Proof of Heaven (L’aldilà esiste) di Eben Alexander, neurologo e affermato medico di Harvard. Il professore, fino a poco tempo fa scettico e scientista per quanto riguarda le famose esperienze di pre-morte (fatte da persone che si sono trovate, durante una malattia o in seguito a evento traumatico, in stato di completa incoscienza) è stato in coma sette giorni e ha sperimentato visioni analoghe a quelle narrate da altri pazienti: nuvole rosa, farfalle, esseri luminosi, sfere celesti, canti gloriosi, una donna il cui volto esprimeva amore assoluto.Si tratta di percezioni ricorrenti: tunnel, luminosità, sentimento di pace, bellezza e amore, rivisitazione della propria vita passata, incontro con i propri morti.

Ricorderete che ne parla anche il film Hereafter di Clint Eastwood (con Cécile de France e Matt Demon, 2010).Si tratta di fenomeni ancora indecifrabili, di cui si sa poco: l’elemento più concreto a nostra disposizione sono i racconti dei pazienti. Infatti, sono pochi gli scienziati e i medici che hanno pensato valesse la pena occuparsene: i più hanno preferito ignorarli, con l’atteggiamento tipico di una medicina figlia del positivismo e incline al riduzionismo biologico.A loro discolpa, vi sono i molti che li hanno interpretati come prove fattuali che il paradiso esiste. E’ stato facile, così, liquidare le esperienze pre-morte come delirio parapsicologico di pochi pazzi, in malafede o pieni di pregiudizi.

Qualche tempo fa, nel 2010, Enrico Facco, docente di Anestesiologia e Rianimazione presso l’Università di Padova, ha scritto un libro di 420 pagine, bibliografia e indice analitico, intitolato Esperienze di pre-morte. Scienza e coscienza al confine tra fisica e metafisica. Un libro coltissimo, che si muove tra fisica quantistica, chimica, neurologia, psicologia, storia delle religioni. Un libro che complica e non semplifica le cose (e per questo è affascinante) e che non dà risposte (e per questo è serio).

Intanto qualche dato: esperienze analoghe accadono al 10/18% dei pazienti che si trovano tra la vita e la morte, soprattutto con arresto cardiaco o trauma cranico (ma non solo). Si tratta di dati forse sottostimati, perché non tutti i pazienti riportano le loro esperienze di pre-morte, per paura di essere tacciati di follia: paura non arbitraria, visto che il 10% di coloro che hanno invece narrato il loro vissuto è stato trattato con psicofarmaci dal medico curante.

Le esperienze di pre-morte devono dunque essere considerate – scrive Facco – parte della fenomenologia della coscienza in condizioni critiche; la loro incidenza, epidemiologia e caratteristiche cliniche non permettono di ignorarle come fatti sporadici, ininteressanti per la scienza.Gli studi neurofisiologici consentono ipotesi sui meccanismi che danno origine alle esperienze pre-morte (in inglese NDE, Near-Death-Esperiences), come immagini provocate dalla mancanza di ossigeno e di sostanze nutritive nei neuroni cerebrali, oppure come prodotto di farmaci capaci di alterare la psiche (soprattutto la ketamina), somministrati ai pazienti in condizioni cliniche disperate; o come visioni provocate dalle endorfine che si liberano nel cervello in una fase critica delle funzioni vitali.

Tuttavia, le ricerche compiute a contatto coi pazienti “visionari” rendono queste interpretazioni insufficienti: non è dimostrabile il rapporto causale diretto tra le modificazioni neurobiologiche e le esperienze di pre-morte: alcuni particolari riferiti dai pazienti, infatti, non avrebbero potuto essere percepiti nelle circostanze in cui i pazienti si trovavano.

Un esempio per tutti: il cosiddetto “uomo della dentiera”, citato da vari autori. Costui, svegliatosi da uno stato di totale incoscienza, ricordava di avere visto l’infermiera che gli aveva tolto la dentiera prima delle manovre di rianimazione, e sapeva dove quest’ultima era stata riposta! Raccontò poi di essere stato fuori dal suo corpo, e di aver osservato le manovre di rianimazione dall’alto, ondeggiando nella stanza.Insomma, gli studi neurofisiologici non possono esaurire la portata e la complessità di queste esperienze, e soprattutto non possono esaurirne il significato per coloro che le sperimentano.Uno degli spunti più appassionanti è quello transculturale: i racconti dei pazienti variano a seconda della cultura di appartenenza.

Se gli occidentali vedono spesso il tunnel e la luce, nei thailandesi e negli indiani prevale la preoccupazione sulla reincarnazione e sul karma, mentre tra i Mapuche del Sud America l’incontro coi defunti avviene nel cratere di un vulcano. Questa è già una prova sufficiente del fatto che le esperienze di pre-morte nulla hanno a che fare con l’esistenza dell’aldilà (a meno che non si pensi che ognuno avrà l’aldilà in cui crede…). Inoltre, è anche un’indicazione per uno studio non clinico ma antropologico.

Marina Sozzi

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